L’inglese adesso vuole essere “imposto” dal Ministero a tutti i dottorandi, esso vuole diventare criterio discriminante su chi ha il diritto o no di fare scienza e ricerca, su chi può o meno iniziare la carriera accademica, a prescindere dalla disciplina scelta, sia essa fisica o storia del medioevo, a prescindere dalle competenze in altre lingue del candidato, viste come accessorie e quindi non necessarie. La conoscenza dell’italiano non è nemmeno dichiarata come indispensabile, dato che non è prevista nessuna norma a riguardo nel documento in questione, con l’esito paradossale che, a parità di altre condizioni, uno studente britannico ipso facto soddisfa tutti i criteri per accedere ai dottorati italiani, mentre un italiano che non sa l’inglese no.
Intendiamoci. È ovvio che, per un dottorando in informatica italiano come me, è impensabile scrivere la tesi di dottorato in una lingua altra dall'inglese: la ricerca nel campo dell'informatica in lingua italiana è inesistente. Diverso sarebbe stato il caso se io fossi stato francese o spagnolo. Avrei potuto scegliere. Oramai, quando penso nel campo dell'informatica penso direttamente in inglese, e a volte faccio fatica a trovare le parole per spiegare in italiano i miei concetti agli studenti (condizione che i linguisti chiamano di diglossia). È una situazione che accetto perché è il mio lavoro, ma non per questo mi dimentico che non è l'unica soluzione possibile, e comunque non la migliore possibile, da perseguire e generalizzare in tutte le discipline accademiche.
Amici e colleghi olandesi e svedesi mi raccontano che i loro Atenei, i primi ad anglicizzare i corsi di dottorato e di lì a scendere, stanno tornando sui propri passi. Perché? Intanto perché paradossalmente si forzava docenti e studenti a seguire i corsi in una lingua che, checché ce la raccontiamo, non padroneggiamo fino in fondo, quando tutti condividevano i partecipanti condividevano rispettivamente olandese o svedese. O magari c'era uno studente Erasmus. Tedesco, o danese, nei due casi che ho raccolto informalmente. Ma non solo. Si sono resi conto che mantenere un bilinguismo, seppur diglottico come la situazione che vivo io, a volte è un vantaggio. Perché si accede a un delta in più di risorse e possibilità di pubblicazione che i prigionieri del monolinguismo (inglese o altro) non hanno. Se si hanno due strumenti per interpretare lo stesso mondo di riferimento si ha un effetto doppler, i battimenti mentali creano molte più idee interessanti.
Ovviamente noi in Italia tutte queste cose le ignoriamo, a livello ministeriale, e quindi inseguiamo una linea che si è già rilevata perdente.
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