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Wednesday, November 28, 2007

Inglese precoce sì, ma attenzione

Messaggio da papà di due magnifici bambini in età prescolare. Mia figlia va all'ottima Casa dei Bambini Montessori di Milano (fascia d'età: 3-5), mentre mio figlio va all'altrettanto ottimo Il Bruco, (fascia d'età: 0-3).

Sembra che la preoccupazione maggiore, non tanto degli istituti, che si fanno carico di rispondere alle esigenze di bambini e genitori, quanto proprio dei genitori, sta nella supposta insufficiente "esposizione" alla lingua inglese. In realtà sia alla Montessori che al Bruco si stanno comportando molto bene, secondo me, e più di così non possono, anzi, non devono fare. Perché? Ci sono alcuni fatti, noti nella letteratura di pedagogia linguistica, che è bene che i genitori sappiano, e che qui riporto a beneficio di tutti.

Prima considerazione. I genitori non possono e non devono delegare in toto alle istituzioni scolastiche l'apprendimento delle lingue seconde, perché, per quanto si inizi presto a esporli all'inglese o ad altra lingua non presente nella quotidianità ambientale del bambino, non è automatico che i bambini raggiungano un livello di sicurezza nella lingua sufficiente per non vergognarsi o intimidirsi se sbagliano, se la lingua rimane relegata nella scuola. C'è una pletora di letteratura sul campo che lo conferma, anche in contesti naturalmente multilingui come il Belgio o il Canada. Detto in altre parole: la scuola è importante ma non basta. Se si vuole che il bambino impari l'inglese, l'uso dell'inglese in età prescolare va bene, ma dev'essere rafforzato dalla famiglia in maniera semplice e gioiosa. Come? Se non si è madrelingui inglese, non bisogna parlare in inglese al bambino per evitare di insegnargli pronuncia, sintassi e lessico subottimali, al massimo si può leggergli qualche libro e tradurglielo. Molto meglio fargli ascoltare canzoncine, fin dai primi anni, o cartoni animati, se più grandicelli, ovviamente appropriati, vale a dire cantati o recitati da madrelingua (per i cartoni animati consiglio il bellissimo Postman Pat della BBC: sono storie brevi, dalla trama non violenta e con un montaggio tranquillo, che rassicura i bambini). Ancora più importante sarebbe fare le vacanze in Inghilterra o altro paese naturalmente anglofono: in questo modo il bambino àncora l'inglese a un contesto felice (sono in ferie con mamma e papà) e a un luogo (a Milano si parla italiano, a Londra inglese: semplice e chiaro). Mi rendo conto che si tratta di un investimento per tutta la famiglia, ma non si scappa: la lingua si rafforza nel suo Sprachraum, il territorio linguistico proprio. In alternativa, si possono frequentare famiglie dove tutti parlano inglese, anche se non ci si deve stupire se i piccoli milanesi d'adozione vorranno parlare tra loro italiano nei loro giochi... Non importa, i suoni entreranno tranquillamente nella mente del bambino. E con essi sintassi, lessico e quant'altro, il bambino è un apprendente olistico.

Seconda considerazione. Gli inglesi parlano di natural language ma quello che è naturale, e quindi genetico, è la predisposizione a imparare a parlare una o più lingue da piccoli, ma nient'altro. Quale spazio linguistico viene appreso dipende dall'ambiente di vita del bambino. Detto ancora più chiaramente: la lingua primaria del bambino è la lingua primaria del suo ambiente di vita quotidiano. Anche la nostra espressione 'lingua materna' è fuorviante: non si impara la lingua della madre e basta, anche se è indubbio l'aspetto simbolico ed emotivo che la lingua parlata dalla madre ha sul bambino per tutta la vita, ma la lingua dominante che verrà parlata è quella dell'ambiente. Ne è la riprova il fatto che, per esempio, bambini cresciuti a Milano da genitori che provengono da altre regioni d'Italia avranno la prosodia (accento, cantilena, e altri fenomeni legati alla catena del parlato) tipici di Milano. Una prova ancora maggiore è il caso delle famiglie internazionali, dove per esempio la madre parla in giapponese al figlio, i genitori si parlano tra loro in inglese, e il padre è italiano. Se la famiglia vive a Milano, il bambino parlerà, italiano, inglese, giapponese. In quest'ordine di rilevanza, cioè l'italiano "vince" sulle altre lingue perché è la lingua dell'ambiente. Anche l'inglese è in una buona posizione, perché è ancorato dal bambino alla relazione tra mamma e papà. In un caso simile, la lingua da preservare e rafforzare è il giapponese. Chiedersi qual è la lingua materna o naturale in un caso simile non ha molto senso. Meglio parlare di spazio linguistico, dove l'italiano è lingua primaria (L1) mentre inglese e giapponese sono lingue secondarie (L2). La situazione sarebbe ribaltata tra mamma e papà se la famiglia abitasse a Tokio, naturalmente. Attenzione alle tate madrelingua: anche qui il rischio è di delegare la lingua alla tata. Se il bambino associa la lingua alla tata e basta, il successo della lingua dipende dalla sua relazione con la tata (discorso simile con la madre giapponese di cui sopra, se non si attuano gli opportuni rinforzi detti). Ma cosa si rischia? La risposta a questa domanda è contenuta nella terza considerazione.

Terza considerazione. Il punto è il seguente: il successo o fallimento della lingua dipende dalla relazione che si instaura tra il bambino e la lingua in oggetto, in questo caso l'inglese. Difatti, se la lingua non è associata a una situazione piacevole, divertente e ludica, il rischio -- molto concreto e tutt'altro che raro -- è il rigetto. Nel bambino si forma un blocco psicologico ad imparare quella lingua e, anche provando e riprovando a impararla anni dopo, da adolescente o da adulto, magari la imparerà, ma sarà sempre associata a fatica, sforzo, o addirittura a considerazioni estestiche ("non mi piace, mi fa schifo,è brutta," ecc.). E non c'è dubbio che, per quanto morbidi, attenti, gioiosi e positivi siano gli insegnanti (e vi assicuro che alla Montessori e al Bruco eccome se lo sono!) la scuola è il momento, lo spazio, il contesto, del dovere. Il che non esclude a priori il piacere, ma tale piacere è un valore che le istituzioni più attente come la Montessori o il Bruco, conquistano con la professionalità. Ecco che si ritorna alla seconda considerazione. Lo ripeto: i genitori non deleghino l'apprendimento linguistico alle istituzioni scolastiche. Perché molti genitori tendono a dare questa delega? Eccoci alla quarta considerazione.

Quarta considerazione. Il mio sospetto è che i genitori si vergognino o che temino che i figli non siano "adeguati alle esigenze del mondo d'oggi," e sapere l'inglese è, per l'appunto, un must. Ho una notizia da dargli: recenti studi di politica e pianificazione linguistica, tra l'altro alcuni sponsorizzati dal British Council, mostrano che, più la conoscenza del "basic English" (inglese di sopravvivenza) si espande sul globo, più le altre lingue di cultura diventano importanti, come per esempio: tedesco, francese, spagnolo, cinese, arabo, ma anche giapponese, swahili e russo. È una brutale, se vogliamo, legge economica: se il bene lingua inglese è patrimonio di tutti, il suo valore paradossalmente scende. Intendiamoci: la sua non conoscenza taglia fuori dalle grandi risorse di comunicazione del mondo; alcuni parlano addirittura di linguistic divide, divario linguistico, in analogia al divario digitale a proposito della (mancata) alfabetizzazione digitale, combattuta per esempio dal progetto One Laptop per Child (OLPC). Ma sapere l'inglese non basta. Sembra che i madrelingui inglese siano prigionieri del loro predominio, e la non conoscenza delle altre lingue di cultura è una barriera nell'entrare nei mercati emergenti, per esempio europei. Se si vuole "fare business" in Romania, per esempio, bisognerà alla fine masticare un po' di rumeno, il che significa non solo parlarlo ma anche sapere cos'è la palinka (una specie di grappa). Riassumendo: inglese sì, dunque, ma non basta. E in ogni caso senza forzare, pena il rischio di rigetto. Cosa chiedere dunque ai nidi e alle scuole materne o case dei bambini, nel caso della Montessori? (Quinta e ultima considerazione.)

Quinta considerazione. Che parlino in inglese ai nostri piccoli gioiosamente e tranquillamente in un contesto ben definito, come uno spazio aperto dove si parla inglese e basta (così quando si stufano i piccoli semplicemente se ne escono), oppure un tempo definito, dove c'è un rito di apertura e chiusura (una scatola magica, un gioco, una canzoncina), che annuncino inizio e fine del momento dell'inglese. Non devono fare di più, altrimenti la cosa diventa pesante per un bambino. Perché un bambino dovrebbe appassionarsi all'inglese, se non ha alcun ruolo nella sua vita? (Ecco, di nuovo, la centralità della seconda considerazione.) Per i più piccolini (0-3 anni) la cosa principale è l'ascolto della pronuncia nativa: l'apprendimento dei suoni fondamentali che formeranno lo spazio fonetico del bambino non va oltre l'anno e mezzo massimo due anni d'età, secondo gli studi più accreditati di psicologia dell'età evolutiva. La cosa migliore sarebbe fargli ascoltare il massimo numero di lingue possibili, le più diverse, a quell'età, con cd di ninnananne e filastrocche acompagnate da bei libri colorati. Non importa se nessuno in famiglia ci capisce nulla di yiddish, malgascio o il bararra... Nell'età prescolare i giochi della fonetica sono già fatti: bene avere un'insegnante madrelingua per trasmettergli un inglese modello, ma comunque la pronuncia che avranno non sarà da nativi inglesi, c'è poco da fare. Imparato dopo i tre anni, l'inglese sarà comunque una lingua seconda.

A meno che i vostri figli non appartengano a quell'1% della popolazione mondiale, che, per motivi tutt'oggi misteriosi, impara tutte le lingue a una velocità strabiliante, a qualsiasi età. Ma a questo punto non c'è motivo di preoccuparsi.

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